Il problema delle pensioni in Italia non è relegato esclusivamente agli importi degli assegni, ma anche alla possibilità andarci coi tempi giusti.
Una parte della popolazione potrebbe dover arrivare a 71 anni di avere la pensione.
La legge pensionistica italiana è stata revisionata più volte nel corso del tempo, ma mai in una versione che accontentasse tutti. Tutt’ora la legge pensionistica è uno dei temi più discussi della politica italiana. L’ultima modifica alla legge pensionistica intesa come pensione di vecchiaia del sistema Italiano è stata fatta da Elsa Fornero. La Legge Fornero è quella che attualmente viene utilizzata per calcolare l’età pensionabile dei lavoratori italiani, così come l’importo della pensione che riceveranno. Attualmente la Legge Fornero, per via dei meccanismi di aumento dell’età pensionabile che si applicano di anno in anno, prevede che i requisiti per il pensionamento di vecchiaia siano avere 67 anni di età anagrafica e aver completato 20 anni di contributi.
Questa regola è valida in teoria sempre, ma nella pratica ci sono delle regole ancora precedenti alla legge Fornero che potrebbero far slittare l’età della pensione molto più avanti, fino a 71 anni. Questo accade, in particolare, per via del cambio di calcolo degli importi delle pensioni avvenuto tra il 1995 e il 1996. Un evento di quasi 30 anni fa potrebbe effettivamente aver avuto a che fare con questi ritardi, perché il cambio di calcolo degli importi pensionistici non ha avuto effetto soltanto su questi ultimi, ma anche sulle dinamiche di calcolo dell’ammontare dei contributi stessi. Per chi ha cominciato a versare contributi prima del 31 dicembre 1995, infatti, i requisiti presenti sono solo i due sopra citati, ma per i cosiddetti “contributivi puri” ce n’è uno di più.
Il problema dei contributivi puri
Vengono definiti contributivi puri i lavoratori che hanno cominciato a versare i contributi a partire dal 1 gennaio 1996. Questo perché sono quei lavoratori che hanno un calcolo pensionistico puramente contributivo e non misto con il retributivo come quelli che hanno iniziato a lavorare prima di loro. Questo status inserisce un ulteriore paletto alla possibilità dei lavoratori di andare in pensione.
Per poter evitare che i nuovi pensionati avessero una pensione più bassa della media, visto che il calcolo contributivo da sempre un risultato inferiore a quello retributivo o misto, il Governo dell’epoca ha inserito una ulteriore restrizione. Il lavoratore non avrebbe potuto andare in pensione se non avesse maturato abbastanza contributi da avere un assegno pensionistico pari almeno a 1,5 volte l’assegno sociale.
La ripercussione della decisione oggi
Attualmente l’assegno sociale è stabilito a 470 euro al mese. Questo significa che un contributivo puro non può andare in pensione finché non avrà maturato abbastanza contributi da calcolare una pensione di almeno 503 euro al mese. Questo, a ben vedere, va a vantaggio del futuro pensionato, che avrà un assegno pensionistico maggiore, ma al tempo stesso dovrà aspettare molto più tempo prima della pensione.
Prendiamo un esempio di un lavoratore che nel 2023 ha compiuto 67 anni, e lavora continuativamente a partire dal 2002. Nel 2022 avrà completato i 20 anni di contributi, e l’età anagrafica è quella giusta. Tuttavia i contributi che ha accumulato non bastano per calcolare una pensione pari a 503 euro al mese. Quindi il lavoratore dovrà continuare a lavorare continuativamente fino all’età di 71 anni. Solo allora potrà avere i contributi sufficienti per la pensione che lo Stato vuole che abbia.