I buoni fruttiferi di Poste Italiane possono essere un ottimo investimento dei propri soldi. In teoria il funzionamento è semplice: acquistare buoni fruttiferi e aspettare che acquistino valore. Oggi però, sembrano non essere così conveniente.
Una storia che arriva da Torino e che riaccende le speranze per tutti quei risparmiatori che hanno investito nei buoni postali fruttiferi di Poste Italiane alla fine degli anni ’80. Una risparmiatrice, che nel 1989 aveva acquistato uno dei suddetti buoni postali fruttiferi del valore di 5 miloni di lire (poco più di 2.500 euro attuali), è arrivata a riscuoterlo nel 2019, 30 anni dopo. La somma che spettava alla signora, secondo si suoi calcoli, era di 65.000 euro, applicando i tassi di interesse dei buoti postali di serie P, ma Poste Italiane avrebbe riconosciuto alla signora solo 28.000 euro.
Questa storia si somma ad altre che formano il grande quandro di un contenzioso che va avanti da tempo tra i risparmiatori che avevano infestito in buoni postali fruttiferi alla fine degli anni ’80 e Poste Italiane. Si fa riferimento ad un certo numero di buoni postali rilasciati da Poste Italiane dopo il 1986, all’uscita della serie Q, con tassi di interesse sensibilmente più bassi rispetto alla precedente serie P. In quel periodo, tuttavia, Poste Italiane utilizzava comunque i moduli dei buoni di serie P, apponendo semplicemente un tibro sopra i vecchi rendimenti per specificare quanto avrebbero fruttato in futuro. Andando più nello specifico, i tassi di interesse dalle serie P erano del 9%, 11%, 13% e 15%, mentre i tassi della serie Q erano del 8%, 9%, 10,5% e 12%. I tassi della serie P su questi buoni sarebbero valsi solo per i primi 20 anni prima di passare ai tassi di interesse più bassi della serie Q.
I risparmiatori, tuttavia, hanno incassato molti dei buoni a distanza di 30 anni dal loro acquisto, aspettandosi che i tassi di interessi maggiori venissero applicati anche per gli ultimi 10 anni passati. Poste Italiane era di tutt’altro avviso, e applicava comunque i tassi più bassi. Ne sono scaturiti una serie di ricorsi all’arbitro bancario, soprattutto nel 2020, in gran parte vinte dai risparmiatori, ma Poste ha sempre rifiutato di pagare gli importi maggiori ribadendo come altri tribunali avessero sentenziato in suo favore. L’unico modo per obbligare l’azienda a pagare è di fare ulteriore ricorso al giudice ordinario in sede civile. Qui prende piede la storia sopra citata. Il caso di questa risparmiatrice ha di fatto aperto la strada a molti altri risparmiatori nella stessa situazione, perché il giudice ha riconosciuto alla risparmiatrice il diritto di venire pagata quanto aveva richiesto, ovvero la bellezza di 65.000 euro per un investimento di 5 milioni di lire fatto 30 anni prima.