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Economia

Le 7 cose dell’economia che dopo il Coronavirus non saranno mai più come prima

Published by
Chiara Feleppa

La pandemia da Coronavirus ha avuto un impatto determinante ( e devastante) sull’economia, penalizzando alcuni settori più di altri e accelerando una serie di trasformazioni. Secondo gli esperti, 7 cose cambieranno per sempre.

Il Coronavirus ha cambiato il mondo e ha cambiato anche il volto dell’economia. La pandemia ha mostrato tutte le fragilità dei sistemi che regolano la vita sociale ed economica del mondo e, nel caso dell’Italia, ha evidenziato la debolezza del nostro welfare e del sistema sanitario che, dopo pochissime settimane dall’inizio della pandemia, ha mostrato segni di cedimento. Il mondo industrializzato, tecnologico ed interconnesso non ha retto l’onda d’urto del virus e tutt’ora la scienza non sa delineare bene le tappe future. Certo, il vaccino è un’arma che sta aiutando nella compressione dei contagi ma, anche in questo caso, le incognite da risolvere e i nodi da sciogliere sono diversi.

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Crisi sanitaria vuol dire anche crisi economica. Secondo gli economisti Immanuel Wallerstein, Joseph Stiglitz , Stephen Roach e Amartya Sen ci troviamo in un periodo di “stagnazione del sistema mondo”. Cioè – ricorda Giuseppe Spadafora – pensano che l’economia negli ultimi 70 anni “abbia condizionato negativamente la società ed abbia creato le basi per le disparità e la polarizzazione dei profitti verso pochi a scapito dei tanti”. In altre parole, il sistema capitalistico ha mostrato i propri limiti , così come la politica che si è rivelata incapace di affrontare totalmente la crisi.

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7 cose che cambieranno per sempre

Secondo gli esperti, 7 cose cambieranno per sempre a partire dall’esplosione del debito pubblico, che alla fine del 2020 è salito a 281 mila miliardi di dollari, circa 235 mila miliardi di euro, ovvero il 355% del Pil mondiale. Il debito pubblico dell’Italia è salito dal 134,6% del Pil nel 2019 al 157,5% nel 2020. Infatti, secondo le stime dell’Institute of International Finance di Washington, governi, imprese e famiglie hanno accumulato debiti per 24 mila miliardi di dollari, per far fronte all’emergenza Coronavirus. In prospettiva, superata la crisi, gli acquisti della Bce dovranno ridursi e, per rendere sostenibile il debito, l’economia dovrà tornare a crescere.

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Secondo Elena Carletti, professoressa ordinaria di finanza all’Università Bocconi, c’è più “volontà da parte della Bce e della Commissione di aiutare i Paesi indebitati e questo è un segnale importante per i mercati”. Se è vero che rimane il problema della sostenibilità del debito pubblico rimane, è anche vero che la crisi ha cambiato totalmente il mondo. E se è vero, ancora, che i tassi di interessi continuano a essere molto bassi, è anche vero che se questi dovessero riaumentare, “il problema si porrebbe in maniera più preponderante”.

Debiti, che fare?

La pandemia ha fatto aumentare esponenzialmente anche i debiti societari. “La situazione delle imprese va monitorata, soprattutto in Italia. Anche perché le imprese sono chiamate a fare dei cambiamenti, sia per la situazione che stiamo vivendo sia perché il Recovery Plan li richiede. Per farli però servono soldi per investire”, prosegue Carletti. Se si guarda ad altri Paesi, come la Germania, dove le moratorie sono terminate, si nota che “non ci sono stati grandi innalzamenti di insolvenze“. Un modello che, si spera, possa seguire anche l’Italia, Paese però fortemente indebitato a livello di imprese. Cosa fare? “Prolungare eccessivamente le moratorie potrebbe favorire comportamenti opportunistici da parte dei debitori o aumentare il rischio di un effetto valanga quando dovessero cessare. Però anche ritirarle troppo presto sarebbe rischioso”, prosegue l’esperta. Ma ad oggi, le imprese hanno ancora bisogno di misure di sostegno.

Ma non basta…

Ma il sostegno non basta. Secondo Vincenzo Galasso, professore ordinario di economia politica all’Università Bocconi di Milano, non si possono sostenere tutte le imprese. “È proprio un cambio epocale di natura imprenditoriale quello che si dovrà fare”, sostiene Galasso. A differenza delle precedenti crisi, il Coronavirus si palesa come uno shock settoriale. Ovvero, a prescindere dalla produttività, ci sono settori più colpiti di altri. E, di conseguenza, settori che hanno reagito diversamente da altri. A questo proposito, le potenzialità dello smart working hanno attecchito meglio in settori più che in altri ma non è improbabile pensare che , superata l’emergenza, il lavoro agile possa rimanere in atto, determinando un cambiamento strutturale.

“Quello che sta succedendo ci porterà verso una maggiore automazione perché abbiamo tutti iniziato a usare di più il digitale. La pandemia ci ha fatto perdere molte remore su questo fronte”, osserva il professor Galasso. Anche l’automazione, però, è diventata una fonte di grande disuguaglianza che rischia di distruggere posti di lavoro senza ricrearne tanti altri. A proposito dei settori, servizi essenziali o quelli erogabili online hanno risentito meno della crisi mentre settori non essenziali come gli hotel, l’intrattenimento di massa o il turismo, invece, hanno visto crollare le loro entrate. Fortemente penalizzate anche le vendite al dettaglio e il settore dell’abbigliamento. Come effetto indiretto del lavoro agile, il telelavoro potrebbe aumentare la domanda di tecnologie informatiche e le occupazioni ad esse legate.

Cosa ci aspetta?

In generale, ci si aspetta una contrazione della domanda per i ristoranti, i viaggi e gli alloggi e per i settori che dipendono dai grandi raduni, come eventi sportivi e spettacolo dal vivo. Inoltre, potrebbe rafforzarsi la polarizzazione tra chi ha lavori ben pagati e chi farà lavori meno retribuiti e più pesanti. Non a caso, le fasce meno istruite del mercato del lavoro hanno pagato un prezzo molto più alto durante il lockdown ed è aumentata anche la distanza tra laureati e non laureati, spiega ancora Galasso.

Secondo uno studio dello Us Bureau of Labor Statistics, l’aumento dello smart working potrebbe servire da stimolo al cambiamento. “Il bisogno di spazio per gli uffici diminuirebbe, facendo crollare la domanda dell’edilizia non residenziale. Diminuirebbero gli spostamenti e con essi i costi del pendolarismo, dei viaggi d’affari e la spesa per i ristoranti in pausa pranzo”, fanno notare gli economisti. In prospettiva futura, questo potrebbe ampliare il mercato del lavoro, perché “non sarà più indispensabile assumere una una persona che vive dove ha sede l’azienda o nelle immediate vicinanze”.

Un altro effetto, la differenziazione tra outsider – cioè persone giovani, di sesso femminile e con contratti di lavoro atipici – ed insider – spesso uomini, adulti e con situazioni contrattuali stabili. Insomma, sarà avvantaggiato chi è fresco di idee. Ma, ci è entrato nel mercato del lavoro durante la pandemia, “soffrirà anche in futuro della mancanza di questi contatti e questo vale anche per la nascita di nuove imprese. In questo i giovani sono stati molto penalizzati”. Concludendo: alcune trasformazioni sono destinate a durare nel tempo. Le disuguaglianze diventeranno più evidenti. La ripresa, andrà a velocità diverse.

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